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LEALTÀ, SUSSIDIARIETÀ, CONCORRENZA E LOTTA ALL’ABUSIVISMO
1. Lealtà e correttezza
1.1. Sussidiarietà
2. Concorrenza e professioni
2.1. Il concetto di concorrenza libera
2.2. L’impianto costituzionale
2.3. L’orientamento comunitario
2.4. Concorrenza e professioni
3. Le buone condotte con gli altri professionisti
3.1. Art. 13: rapporti con altri professionisti
3.2. Art. 14: concorrenza sleale
3.3. Art. 16: sostituzione di collega per decesso, sospensione o temporaneo impedimento
3.4. Art. 20: rapporti con i colleghi .
4. L’articolo 19 del Codice deontologico: partecipazione a compagini societarie e collaborazioni con imprese che erogano servizi nel settore di attività
4.1. Centri elaborazione dati
4.2. Associazioni di categoria dei datori di lavoro
4.3. Società tra professionisti
4.3.1. Regime disciplinare nella STP (art. 12 D.M. 8 febbraio 2013)
1. LEALTÀ E CORRETTEZZA
Ai sensi dell’art. 20 del Codice deontologico dei Consulenti del Lavoro, “il Consulente deve mantenere nei confronti dei colleghi e delle istituzioni un comportamento ispirato a correttezza e lealtà”.
Per meglio comprendere il significato della disposizione occorre fare riferimento, seppure in via analogica, alle disposizioni del codice di procedura civile. Infatti, ai sensi dell’art. 88 c.p.c. “le parti e i loro difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità. In caso di mancanza dei difensori a tale dovere, il giudice deve riferirne alle autorità che esercitano il potere disciplinare su di essi”. Tale norma, scritta per il processo civile, esprime in modo chiaro quale debba essere il comportamento del professionista in generale non solo nei confronti dei colleghi, ma anche delle istituzioni e trova di certo per analogia una sua applicazione anche rispetto alla deontologia del Consulente del Lavoro.
Il citato art. 20 ha contenuto elastico e generico, esprimendo un necessario richiamo a quell’insieme di norme, anche non scritte, che nascono direttamente dall’esperienza sociale e dalla coscienza dell’ambiente sociale proprio dell’attuale momento storico. Da ciò si evince che i comportamenti sleali e disonesti si concretizzano in tutte quelle attività che mirano ad ottenere effetti vantaggiosi in conseguenza di una violazione delle regole, attraverso manovre scorrette con fini defatigatori e pretestuosi.
Secondo il pensiero del Calamandrei, i principi di lealtà, correttezza e probità vanno individuati nella “osservanza delle regole del gioco, cioè fedeltà a quei canoni non scritti di correttezza professionale, che segnano il confine tra […] la maestria dello schermidore accorto e i goffi tranelli del truffatore”1.
Il Consulente del Lavoro non potrà mai comunicare consapevolmente alle istituzioni informazioni false o fuorvianti, in quanto ciò sarebbe contrario alla buona amministrazione delle istituzioni stesse. Da ciò discende che, nell’interesse generale, i Consulenti debbano comportarsi in buona fede, evitando attività tendenti ad ingannare il prossimo. Il rispetto reciproco tra colleghi facilita la buona amministrazione degli enti in generale, aiutando a risolvere bonariamente i conflitti.
Stante la genericità del contenuto della disposizione di cui all’art. 20 (comportamento ispirato a correttezza e lealtà),
definibile puramente “moraleggiante”, sarà necessaria una attenta individuazione del comportamento scorretto non solo alla luce delle violazioni codificate, ma anche in rapporto a tutte quelle azioni che, anche in via indiretta, tendano a realizzare una ingiustizia a danno dei terzi. Va, inoltre, tenuto presente che la menzionata generalità potrebbe comportare una variabilità del contenuto della norma in rapporto ai mutamenti temporali della “coscienza sociale”, comportando, così, una necessaria attualizzazione giuridica della norma stessa.
1.1. Sussidiarietà
Nell’articolo in commento, si individua come la “sussidiarietà” sia una vera e propria vocazione della professione di Consulente del Lavoro. Infatti, volendo analizzare il significato del richiamo alle istituzioni, va sottolineato che il ruolo del professionista, pur rimanendo nel rispetto della tutela del cliente, non può valicare i confini della norma di legge.
Il principio di sussidiarietà rappresenta una chiara espressione del moderno riformismo. In effetti, l'eccesso di burocrazia si pone come un limite allo sviluppo della libertà economica. Il sistema italiano oggi è ingessato da una struttura di apparati burocratici assolutamente frammentaria anche nella distribuzione delle competenze (si pensi alla suddivisione tra Stato, regioni ed enti locali), tanto da far avvertire fortemente la necessità di riformare in modo completo il titolo V della Costituzione. Non a caso, in questi anni abbiamo assistito a tentativi di semplificazione e di messa in opera delle cosiddette buone pratiche, tuttavia la semplificazione menzionata, che si è realizza attraverso uno snellimento degli apparati da un punto di vista umano, spesse volte si complica a causa delle difficoltà proprie della telematica. È, quindi, necessario ridistribuire gli adempimenti pubblici, utilizzando e realizzando il principio della sussidiarietà, il quale non nega l'essenzialità del ruolo dello Stato e del potere pubblico, ma anzi lo esalta attraverso l'utilizzo di componenti di natura pubblicistica, quali gli ordini professionali, che possono fungere da garanzia del corretto svolgimento degli adempimenti 2 . Occorre, quindi, rivalutare
fortemente la sussidiarietà, ribadendo l'importanza del ruolo delle professioni e tenendo presenti due corollari importanti: innovazione e semplificazione da un lato e la c.d. ablazione dall’altro.
La semplificazione del sistema richiede un‘apertura agli Ordini professionali, che sono esterni all’apparato, ma rientranti comunque nel mondo pubblicistico. Come noto, infatti, il professionista esplica sé stesso e la sua attività nei confronti della collettività in virtù di un riconoscimento pubblico (delega), conseguente prima al superamento di un esame, poi al mantenimento di una iscrizione all’Ordine stesso. Il riconoscimento pubblico delegatorio ha la natura di un’investitura laica, che autorizza il professionista a disporre dei diritti e degli interessi individuali e collettivi nel senso della legge. Non esiste, quindi, logica professionale senza il riconoscimento del valore etico della “Regola professionale”, di cui l’Ordine professionale è l’unico custode.
La sussidiarietà non richiede unicamente l’esternalizzazione di incarichi a terzi, che abbiano comunque le caratteristiche di legittimazione, ma anche l’individuazione di ulteriori funzioni che svolgano una attività di semplificazione. Ciò al fine di dare maggiore impulso all'economia e maggiore snellezza nei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione. In questo senso, il ruolo degli ordini può essere fondamentale. In particolare, il lavoro dei professionisti può essere significativo nell'ambito della semplificazione in materia di attività di impresa. L’istituzionalizzazione, con apposita regolamentazione normativa, del sistema delle asseverazioni in materia di regolarità contributiva anche nell'ambito dei contratti di appalto costituisce un importante strumento di alleggerimento in materia lavoristica e previdenziale. I professionisti, competenti nel settore, possono svolgere un ruolo importante per la regolarizzazione del sistema. L'asseverazione contributiva assolve a quella necessità, propria della pubblica amministrazione, di dare trasparenza al rapporto giuridico previdenziale3.
2. CONCORRENZA E PROFESSIONI
Affrontare il tema della libera concorrenza e la sua interferenza con la disciplina delle professioni autonome impone uno sguardo alla sua evoluzione storica e all’ambito dei singoli sistemi economici, da confrontare con il mondo ordinistico e con i princìpi cui questo è asservito, anche alla luce della considerazione che è consegnata dal legislatore comunitario.
2.1. Il concetto di concorrenza libera
La considerazione del concetto di concorrenza impone innanzitutto una valutazione preliminare della differenza tra libertà di concorrenza e libertà effettiva. La prima locuzione è riferita al riconoscimento della libera iniziativa economica. Con la seconda, invece, si intende tenere conto del funzionamento effettivo di un determinato mercato. Si distingue tra sistemi economici “by dictate”, come quelli di ispirazione socialista, nei quali l’economia è pianificata e la concorrenza perciò fortemente “governata”, e quelli nei quali è la concorrenza a governare il mercato. In ogni caso, la regolazione della concorrenza non è fine a sé stessa, ma è un momento fondamentale della individuazione degli obiettivi che una determinata comunità intende darsi e della prefigurazione del metodo attraverso il quale si intendono raggiungere gli stessi.
2.2. L’impianto costituzionale
La nostra Carta fondamentale ha un approccio al concetto di concorrenza orientato all’affermazione dell’iniziativa economica, che ai sensi dell’art. 41 Cost. è libera (co. 1), ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (co. 2). Centralità, dunque, del ruolo e della funzione della persona che si riverbera sulla necessità, prevista dal comma 3 dell’art. 41, di assegnare alla legge il compito di determinare “i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. È l’utilità sociale pertanto a fare da contraltare al mercato libero, alla autoregolamentazione attraverso la concorrenza. Utilità che, più correttamente, è un elemento necessario all’affermazione della libertà e del diritto alla concorrenza, intrisa com’è di valori recanti tutele per la sfera personale individuale e collettiva. La libertà di iniziativa economica privata è perciò, oltre che auto-regolamentata dal principio della concorrenza, etero-determinata dai poteri pubblici che, al pari degli altri imprenditori, interferiscono con il
mercato, indirizzandolo verso gli scopi che l’ordinamento si è dato e intende raggiungere. L’art. 41 della Costituzione costituisce un compendio esemplare dell’affermazione di questi princìpi.
2.3. L’orientamento comunitario
Quanto all’approccio relativo alla eventuale regolamentazione della concorrenza, e dunque della influenza istituzionale sul mercato, quello comunitario non è dissimile, nei suoi assunti di fondo, da quello della Costituzione del nostro ordinamento. Nell’affermazione della libertà dell’esercizio dell’attività economica di impresa, la Corte di Giustizia dell’Unione europea individua l’ammissibilità della introduzione di limitazioni al mercato – specifiche e circoscritte – in quanto finalizzate alla protezione di interessi superiori, che travalicano quelli privatistici del mercato, legati al profitto individuale (tutela dei consumatori, garanzia della qualità della prestazione resa, amministrazione efficace).
2.4. Concorrenza e professioni
Il tema della concorrenza è oggetto della sensibilità degli ordini professionali, che ne regolamentano la materia anche dal punto di vista disciplinare. Il Codice deontologico dei Consulenti del Lavoro ad esempio, oltre che codificare e perseguire la concorrenza sleale (art. 14), accompagna e informa tale criterio a tutta una serie di princìpi che guidano l’attività professionale anche in relazione al suo rapporto con il principio della concorrenza. Questa è lecita quando l’attività professionale è svolta con dignità e decoro (art. 3), lealtà e correttezza (art. 5), competenza (art. 10).
Ma il concetto di concorrenza e la sua influenza sul mercato sono compatibili con le professioni ordinistiche?
L’assunzione delle attività riferibili alle professioni ordinistiche nell’alveo di quelle d’impresa sembra essere un principio consolidato del diritto europeo, che estende il concetto di concorrenza anche alle libere professioni. Tale affermazione deve fare i conti con le regolamentazioni nazionali, in primis quella del nostro Paese, contraddistinte da un livello di normazione particolarmente significativo, e non sempre compatibile con i dettami della libera concorrenza perseguiti dall’orientamento comunitario. È necessario, dunque, contemperare il diritto alla libera concorrenza, quale metodo regolatorio del mercato, con gli interessi pubblici che ne richiedono talvolta la limitazione, verificandone la compatibilità con il contesto normativo, giustificati dalle esigenze di tutela sottese, collegate
innanzitutto alla specificità della natura dell’attività professionale.
Come è stato osservato, infatti, “l’inquadramento giuridico delle professioni intellettuali poggia sul riconoscimento in capo alle stesse di una serie di specificità che potrebbero causarne, in assenza del loro assoggettamento ad una disciplina ad hoc, lo scorretto svolgimento con gravi ripercussioni sul benessere comune. Innanzi tutto l’esercizio delle attività professionali incide su beni e valori primari, alcuni dei quali di rango costituzionale, spesso eccedenti l’ambito privatistico della singola prestazione, e così determinando effetti esterni per la collettività. […] Ne discende, come logica conseguenza, che i costi sociali derivanti da una prestazione professionale inadeguata sono di notevole rilevanza” 4 . Si tratta di considerazioni che si riverberano evidentemente sulla professione dei Consulenti del Lavoro, il cui ruolo di terzietà e di garanzia della corretta applicazione della legge nell’ambito della gestione del rapporto di lavoro subordinato, esteso anche agli aspetti contributivi e assicurativi, non tollera il rilascio esclusivo alle leggi del mercato e al predominio delle logiche del prezzo più basso. Conseguentemente la distinzione, opportuna pur nella genericità della riconduzione dell’attività professionale all’ambito delle ragioni d’impresa, ormai invalsa a livello comunitario, e la plausibilità di interventi regolatori della concorrenza, a tutela ad esempio delle asimmetrie informative che subiscono gli utenti, sono altresì giustificabili e coerenti con gli impianti costituzionale e comunitario (una su tutti, l’affermazione del diritto all’equo compenso).
Infatti la “Carta di Nizza, diventata legalmente vincolante assumendo lo stesso valore dei Trattati a seguito del Trattato di Lisbona, distingue la libertà professionale ex art. 15 dalla libertà d’impresa prevista dal successivo art. 16, collocando l’esercizio di una professione liberamente scelta o accettata nell’ambito del ‘diritto di lavorare’ e mettendo in discussione conseguentemente anche la qualificazione del professionista come impresa, ed a fortiori ragione degli stessi Ordini professionali come associazioni di imprese”5.
3. LE BUONE CONDOTTE CON GLI ALTRI PROFESSIONISTI
Di seguito, in via esemplificativa, si riassumono le buone condotte che, in relazione a specifici articoli del Codice deontologico (13, 14, 16 e 20), il Consulente del Lavoro deve osservare per non incorrere in violazioni disciplinari.
3.1. Art. 13: rapporti con altri professionisti
Il Codice impone al Consulente il divieto di accettare incarichi congiuntamente con soggetti non abilitati e di avvalersi, per l’esercizio di prestazioni riservate, di soggetti non abilitati ovvero di promuoverne o favorirne l’attività. Tale disposizione può riassumersi con il precetto che la consulenza del lavoro appartiene a professionisti preposti. Come noto, anche il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) con la sentenza n. 103/2015 del 16 gennaio 2015 si è pronunciato facendo chiarezza in materia e soprattutto riconoscendo il valore e il ruolo del sistema ordinistico. Le attività riservate dalla legge istitutiva n. 12/1979, avendo carattere unitario e inscindibile, devono essere rimesse esclusivamente ai Consulenti del Lavoro o alle società tra professionisti in forza proprio delle riserve contenuta nella succitata legge. Si ricorda, infatti, che, stando alla stessa, in riferimento all’esercizio della professione “tutti gli adempimenti in materia di lavoro, previdenza ed assistenza sociale dei lavoratori dipendenti, quando non sono curati dal datore di lavoro, direttamente od a mezzo di propri dipendenti, non possono essere assunti se non da coloro che siano iscritti nell’albo dei consulenti del lavoro a norma dell’articolo 9 della presente legge, salvo il disposto del successivo articolo 40, nonché da coloro che siano iscritti negli albi degli avvocati e procuratori legali dei dottori commercialisti, dei ragionieri e periti commerciali, i quali in tal caso sono tenuti a darne comunicazione agli ispettorati del lavoro delle province nel cui ambito territoriale intendono svolgere gli adempimenti di cui sopra”.
Fermo restando che la predetta attività per gli altri professionisti tassativamente indicati dalla norma non è automaticamente esercitabile, ma è subordinata a due condizioni, una di natura costitutiva e l'altra territoriale, è sempre consigliabile, valutare il profilo professionale dei soggetti con cui si è in procinto di svolgere la propria attività lavorativa. A tal proposito si rammenta che l’incarico professionale può essere assunto solo dal professionista iscritto all’Albo (art. 2231 c.c.). In merito a tale fattispecie, è bene anche rammentare che la disciplina di cui all’art. 348 del codice penale, in materia di esercizio abusivo della professione, nel combinato disposto con l'art. 3 della legge
n. 12/1979, si estende alle ipotesi di esercizio della professione in forme associate o societarie ovvero, stante la disciplina di cui ai commi 4 e 5 del medesimo art. 1, alle attività dei centri di elaborazione dati. Dal punto di vista sanzionatorio, chiunque abusivamente eserciti la professione di Consulente del Lavoro è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni con la multa da 10.000 a 50.000 euro (art. 348, comma 1, c.p.). La condanna comporta la pubblicazione della sentenza e la confisca delle cose che sono servite o sono state comunque destinate a commettere il reato. Qualora il soggetto che ha commesso il reato eserciti regolarmente una professione, la sentenza viene trasmessa al competente Ordine, Albo o registro ai fini dell’applicazione dell’interdizione da 1 a 3 anni dalla professione o attività regolarmente esercitata (art. 348, comma 2, c.p.).
Si applica, infine, la pena della reclusione da 1 a 5 anni e una multa da 15.000 a 75.000 euro, nei confronti del professionista che ha determinato altri a commettere il reato di abusivismo professionale o ha in ogni caso diretto l’attività delle persone che sono concorse nel reato (art. 348, comma 3, c.p.)6.
3.2. Art. 14: concorrenza sleale
La concorrenza deve svolgersi secondo i principi dell’ordinamento giuridico, così come integrati dal Codice deontologico. In particolare, fatto salvo quanto previsto all’articolo 33 del medesimo codice per ciò che concerne la pubblicità informativa, sono indicati di seguito, con carattere esemplificativo e non tassativo, alcuni comportamenti che il Consulente del Lavoro è tenuto ad evitare.
a) La diffusione di notizie e apprezzamenti circa l’attività di un professionista idonei a determinarne il discredito
Tale fattispecie si può verificare sia attraverso comunicazioni telefoniche, sia utilizzando canali di comunicazione alternativi, come social network, WhatsApp o più banalmente le e-mail. A tal proposito, si consiglia di esaminare sempre con accuratezza la veridicità delle notizie di cui si è in possesso e, qualora fossero di grave entità, in contrasto coni requisiti professionali della categoria e fondate su assunti oggettivamente comprovati, di avvertire prontamente il Consiglio Provinciale dell’Ordine di appartenenza.
b) Il compimento di atti preordinati, in via esclusiva, ad arrecare pregiudizio all’attività di altro professionista
Ciò si traduce in una sintesi tra la libertà di iniziativa economica e la necessità che questa rispetti i limiti di legge e venga esercitata in un'ottica solidaristica. Pertanto, ogni violazione in grado di arrecare danno materiale o morale a terzi, comportano il mancato rispetto del Codice deontologico. L’acquisizione di nuova clientela non può essere il frutto di un’attività denigratoria nei confronti di un collega.
c) L’uso di segni distintivi dello studio idonei a produrre confusione con altro professionista
Molto spesso si assiste a frequenti errori in cui gli iscritti incorrono quando appongono il logo di categoria, allo scopo di darne visibilità all’esterno ed ai propri clienti, in tutti i materiali illustrativi e pubblicitari che producono per il proprio studio professionale. Il logo dei Consulenti del Lavoro nasce su un triangolo, in cui i punti principali sono idealmente collegati a due a due con un lato in comune, allo scopo di rappresentare la triangolazione fra Consulente, società e lavoro. Nella sua accezione generale, si propone come manifesto programmatico di sviluppo nell’equidistanza fra consulenti, impresa e istituzioni. Normalizzato su un impianto di forte rigorosità geometrica e razionale, il marchio può essere declinato con duttilità e inventiva, permettendo una vasta e inesauribile applicazione ad ogni livello di messaggio, da quello prettamente istituzionale sino a quello propriamente pubblicitario. Il grande senso di appartenenza che contraddistingue gli iscritti, si traduce talvolta nella volontà di personalizzare il logo dei Consulenti del Lavoro modificandone il colore di una o più barre, o addirittura lo sfondo. Tuttavia, è bene ricordare che gli iscritti all’Ordine sono tenuti a utilizzare il solo logo, senza alcun colore, per diffondere l’immagine del proprio studio sia a livello professionale che a livello pubblicitario. A titolo esemplificativo, i singoli iscritti non possono utilizzare, per le attività del proprio studio, il logo con la barra colorata perché i colori vengono impiegati per indicare specifiche istituzioni e più precisamente:
- il logo con la barra superiore verde indica il Consiglio Nazionale dei Consulenti del Lavoro;
- il logo con la barra superiore gialla indica il Consiglio Provinciale dell’Ordine;
- il logo con la barra superiore blu indica l’Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza per i Consulenti del Lavoro.
d) La distrazione da parte del Consulente chiamato a sostituire temporaneamente nella gestione dello studio un collega sospeso o impossibilitato di clienti di quest’ultimo
È assolutamente vietato utilizzare a proprio vantaggio informazioni riservate, contatti e rapporti appartenenti, di fatto, al collega che temporaneamente viene sostituito per le casistiche richiamate. Tutto ciò è riconducibile ad un’attività non conforme ai principi di correttezza e lealtà, in quanto si utilizzano conoscenze e know-how, ottenuti durante la sostituzione temporanea del collega, allo scopo di acquisire nuovi clienti. Tale fattispecie è riconducibile al comma 3 dell’art. 2598 del codice civile, secondo cui compie atti di concorrenza sleale chiunque “si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale”. In tal senso è bene svolgere la propria attività professionale nel rispetto del più volte richiamato principio di correttezza, a cui può affiancarsi quello di buona fede in senso oggettivo, cioè il dovere di comportarsi con lealtà e onestà.
e) L’esercizio dell’attività con titolo professionale o formativo non conseguito
Il titolo di Consulente del Lavoro abilita allo svolgimento delle attività di cui all’art. 1 della legge 12/1979. Tuttavia, va tenuto presente che alcune attività richiedono una particolare formazione e conseguente accreditamento. Specifica attenzione deve essere posta ad esempio all’Asseverazione di Conformità contributiva e retributiva dei rapporti di lavoro (Asse.Co.). Prima di esercitare tale attività, è bene rammentare che ai sensi del regolamento approvato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro nella seduta del 23 maggio 2019, per assistere un datore di lavoro nella procedura di asseverazione, il Consulente deve, a seguito di specifica istanza, ottenere dal CNO l’accreditamento quale asseveratore (CdlAss). Per ottenere tale titolo, il Consulente del Lavoro deve possedere determinati requisiti, indicati all’art. 1 co.2 del citato regolamento, quali, ad esempio, aver frequentato uno specifico corso di formazione organizzato dal CNO per il tramite della Fondazione Studi, essere in
regola con la formazione continua obbligatoria e quella specifica per l’ottenimento della qualifica di asseveratore che ha validità biennale.
Una tematica altrettanto delicata è quella riferita ai professionisti che dichiarano corsi di specializzazione, grande esperienza e/o competenze specifiche, che in realtà non possiedono, nel curriculum vitae oppure attraverso l’utilizzo di mezzi alternativi (come ad esempio LinkedIn), allo scopo di svolgere attività in materie settoriali come previdenza, welfare aziendale, sicurezza, etc.
In tal caso, ne deriva un comportamento non conforme anche ai principi richiamati all’art. 10 del Codice deontologico, ovvero al dovere di competenza, secondo cui il Consulente non deve accettare incarichi che sappia di non poter svolgere con la necessaria competenza o per le quali non sia in grado di assicurare un’organizzazione adeguata. Non rispettare tali dettami può integrare un’ipotesi di lesione dell’immagine non solo dello stesso professionista, ma più in generale del proprio Ordine professionale.
f) L’esercizio dell’attività nel periodo di sospensione disciplinare
La sospensione dall’esercizio professionale consiste nell’inibizione dall'esercizio della professione per un periodo di tempo prestabilito. Dunque, nel caso di sospensione dall’esercizio professionale, il Consulente del Lavoro non potrà svolgere alcuna attività per il tramite dei suoi dipendenti, di collaboratori o altri soggetti.
g) Il vanto di rapporti di parentela o familiarità con coloro che rivestono incarichi oppure operano nelle Istituzioni al fine di trarre utilità di qualsiasi natura nella sua attività professionale
Il professionista non deve approfittare di rapporti di amicizia, familiarità o confidenza con coloro che rivestono incarichi oppure operano nelle Istituzioni, per ottenere o richiedere favori, né tantomeno ostentare l'esistenza di tali rapporti. Tenere comportamenti poco trasparenti finalizzati ad acquisire nuova clientela è sia deontologicamente che moralmente scorretto, in quanto è dovere del Consulente del Lavoro agire nel rispetto dei principi fondamentali della lealtà, della dignità e dell’integrità morale. In particolare, quando si parla di integrità morale, non ci si limita a considerare una fattispecie isolata nella vita di un professionista, ma più in generale bisogna riferirsi alla persona ed ai comportamenti da essa tenuti. Quando svolge la sua attività il Consulente deve rammentare che, poiché la Categoria è identificata dalla società come voce qualificata per la trattazione di importanti tematiche connesse al mondo del
lavoro, i comportamenti degli iscritti all’Ordine possono diventare oggetto di giudizio da parte della collettività.
Pertanto, fermo restando che l’esercizio della professione è libero e fondato sull’autonomia di giudizio, il Consulente ha l’obbligo di valutare la correttezza del proprio operato, allo scopo di non ledere in nessun modo l’immagine dell’Ordine a cui appartiene.
3.3. Art. 16: sostituzione di collega per decesso, sospensione o temporaneo impedimento
Il Consulente del Lavoro, chiamato dal Consiglio Provinciale dell’Ordine oppure dalla famiglia a sostituire un collega deceduto per liquidare lo studio, o gestirlo temporaneamente, dopo aver accettato l’incarico, deve agire con particolare diligenza, avendo riguardo agli interessi degli eredi, dei clienti e dei collaboratori del collega deceduto. Per svolgere tale attività, pertanto, è necessario cercare di soddisfare l'interesse delle parti coinvolte con la massima professionalità. Per gli incarichi conferiti al deceduto ma eseguiti, anche in parte, dal sostituto, può essere richiesto parere all’Ordine sulle modalità e criteri di ripartizione del compenso. In caso di eventuale acquisizione dello studio del collega deceduto, il collega chiamato in sostituzione dovrà darne informativa al Consiglio Provinciale dell’Ordine territorialmente competente. La richiamata fattispecie si applica anche in caso di sospensione o impedimento temporaneo di un collega. In tali casi, il sostituto deve agire con particolare diligenza e gestire lo studio rispettandone connotati strutturali ed organizzativi, dando comunicazione circa i termini della sostituzione agli Ordini di appartenenza.
In altre parole, il professionista, che si accinge a svolgere un’attività che richiede determinate competenze tecniche, deve mettere in pratica tutte le conoscenze e l’applicazione delle regole da lui apprese durante il suo percorso di studi e grazie alle precedenti esperienze professionali, verificate durante la pratica quotidiana e infine approfondite per mezzo dei necessari aggiornamenti.
3.4. Art. 20: rapporti con i colleghi
Come già richiamato7, il Consulente del Lavoro deve mantenere nei confronti dei colleghi e delle istituzioni un comportamento ispirato a correttezza e lealtà. Ciò si traduce, innanzitutto, nell’evitare di rendere
pubbliche informazioni personali dei colleghi, senza averne il consenso, nel divieto di registrare a fini personali una conversazione telefonica o, ancor peggio, fare in modo che il contenuto di colloqui riservati con i colleghi venga riportato in atti processuali. In particolare, per ciò che concerne le conversazioni, siano esse telefoniche oppure in forma scritta (e-mail, sms, WhatsApp, etc.), occorre ricordare che la libertà di parola, di espressione e di critica, non deve tradursi in libertà di denigrare o insultare gli altri.
In ultimo, il Consulente, prima di intraprendere azioni giudiziarie nei confronti di colleghi per fatti inerenti allo svolgimento dell’attività professionale, deve interpellare il Consiglio dell’Ordine Provinciale di appartenenza, al fine di ricercare in quella sede una soluzione che salvaguardi il decoro e la dignità dell’Ordinamento professionale. Non seguire i dettami indicati all’interno del Codice deontologico può integrare un’ipotesi di lesione dell’immagine e della dignità dell’Ordine, con conseguente violazione dei principi generali dell’ordinamento, delle norme deontologiche e disciplinari.
4. L’ARTICOLO 19 DEL CODICE DEONTOLOGICO: PARTECIPAZIONE A COMPAGINI SOCIETARIE E COLLABORAZIONI CON IMPRESE CHE EROGANO SERVIZI NEL SETTORE DI ATTIVITÀ
Il testo dell’art. 19 codice recita:
“1. Il Consulente del Lavoro che rivesta la carica di amministratore di società commerciali che hanno come oggetto sociale l’erogazione di servizi nel settore di attività di cui all’art. 1, commi 4 e 5, della Legge 11 gennaio 1979, n. 12, è tenuto a svolgere le sue attribuzioni e/o funzioni nell’osservanza delle disposizioni del presente Codice.
2. Ove la società di cui al comma precedente ponga in essere atti e/o comportamenti oggettivamente rilevanti ai sensi delle disposizioni del presente Codice, il Consulente del Lavoro che la amministra è ritenuto responsabile degli stessi a meno che si tratti di attribuzioni proprie o di funzioni in concreto attribuite ad altro amministratore, ovvero che si tratti di fatti attribuibili a comportamenti dolosi di terzi o in ogni caso attribuiti esclusivamente a terzi.
3. In ogni caso, il Consulente del Lavoro che amministri o assista le imprese e gli organismi di cui ai commi 4 e 5, dell’art. 1, della Legge 11 gennaio 1979, n. 12, è responsabile se, essendo a conoscenza di fatti rilevanti ai sensi del presente Codice, non ha agito per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze.
4. E’ altresì considerato responsabile il Consulente del lavoro che sia socio di una società di cui al primo comma che abbia autorizzato tali comportamenti ai sensi dell’art. 2364, comma 1, numero 5), c.c. 8 ovvero sia titolare di diritti particolari in materia ai sensi dell’art. 2468, co. 3, c.c.9 ovvero abbia concorso alla decisione ai sensi dell’art. 2479 c.c.10
5. Il Consulente del Lavoro che amministra o assiste le imprese di cui ai commi 4 e 5, dell’art. 1, della Legge 11 gennaio 1979, n. 12, deve assicurarsi che le predette imprese ed organismi effettuino la prescritta comunicazione di conferimento dell’incarico al Consiglio Provinciale dell'Ordine ed alla Direzione Territoriale del Lavoro competenti.
6. Al Consulente del Lavoro che svolge la propria attività nell'ambito di STP si applicano anche le disposizioni di cui ai commi da 1 a 4 del presente articolo.
7. Il Consulente del Lavoro socio di STP che a qualsiasi titolo concorra ad alterare le condizioni previste dell'articolo 10 co. 4, lettera b), della Legge 12 novembre 2011, n. 183, secondo cui il numero dei soci professionisti e la partecipazione al capitale deve essere tale da determinare la maggioranza dei due terzi nelle decisioni o deliberazioni dei soci, sarà considerato gravemente responsabile ai sensi del presente Codice”.
Questo articolo del Codice deontologico ha lo scopo di tutelare la figura professionale del Consulente del Lavoro, delimitando i confini della professione di cui alla legge 12/79 che definisce il ruolo fondamentale, con specifiche funzioni ed attribuzioni che il Legislatore ha inteso conferire alla Categoria in via del tutto esclusiva, alla luce della espressa riserva di legge contenuta nel co. 1 dell’art. 1 della legge stessa11.
Come noto, commette reato colui che non possiede il titolo per esercitare e che, pur disponendo del titolo, non abbia adempiuto alle formalità richieste per l’esercizio della professione (iscrizione all’Ordine, abilitazione, ecc.). Il reato si realizza anche con il compimento di un solo atto illegittimo. Molto spesso, dietro alle realtà dei Centri di elaborazione dati si può nascondere l’esercizio abusivo della professione di Consulente del Lavoro. Tale fenomeno che gli Organi di Categoria hanno sempre affrontato ed aspramente combattuto, intensificando l’attività di vigilanza e utilizzando tutti gli strumenti che la legge mette a loro disposizione, anche interessando costantemente le Direzioni del Ministero del Lavoro, dell’INPS, dell’INAIL, oltre che dell’Agenzia delle Entrate.
La lotta all’abusivismo, tuttavia, non è solo focalizzata sui Ced irregolari, ma anche su tutte quelle società costituite da associazioni di categoria, che risultino prive di rappresentatività delle aziende ed in alcuni casi ad esse non associate o non associabili.
Quello del Consiglio Nazionale è un forte e deciso impegno a contrastare e reprimere il fenomeno dell’abusivismo, in sinergia con Fondazione Studi ed i singoli Consigli Provinciali degli Ordini, da sempre attivi nel rispetto dell’obbligo di vigilanza attribuito loro dalla L. 12/1979.
Nel 2015 la giurisprudenza ha fortemente riconosciuto il ruolo centrale degli iscritti all’Ordine in merito agli adempimenti in materia di lavoro (quelli previsti dalla legge 12 del 1979). Il Consiglio di Stato, infatti, in sede giurisdizionale (Sez. VI) con la sentenza n° 103/2015 del 16/01/2015 si è pronunciato riconoscendo grande valore al sistema ordinistico. In particolare, per quanto concerne il mondo della consulenza del lavoro e dei relativi adempimenti è stato acceso “il semaforo rosso” per i CED nelle gare d’appalto per l’affidamento di servizi professionali in amministrazione del personale. Tale attività “ha carattere unitario ed inscindibile. Ne deriva che dovrà essere rimessa esclusivamente ai Consulenti del Lavoro o alle STP in forza della riserva contenuta nella legge 12/79.
L’art. 19 del Codice deontologico pone particolare attenzione ai doveri ed alle responsabilità deontologiche del Consulente del Lavoro che, operando in realtà societarie, deve essere consapevole delle regole di condotta, al fine di evitare di collaborare con soggetti non abilitati, favorendone l’attività illecita. Esercitare l’attività professionale
riservata in realtà societarie, può concretizzarsi, nell’assistere: centri elaborazione dati, associazioni di categoria e società da queste costituite, od esercitare in STP.
È, quindi, necessario soffermarsi su tali fattispecie.
4.1. Centri elaborazione dati
Le operazioni che possono essere svolte dai CED devono limitarsi ad elaborazioni aventi valenza matematica di tipo meccanico ed esecutivo, quali la mera imputazione di dati (data entry) e il relativo calcolo e stampa degli stessi. Tutte queste attività, tenuto conto delle modalità di utilizzazione dei programmi gestionali da parte dell’operatore non devono includere, in alcun modo, attività di carattere professionale o di consulenza.
Quella svolta dai CED è qualificabile come attività d’impresa ai sensi dell’art. 2082 del c.c.12 In quanto tale, è sottoposta ai normali requisiti ed obblighi delle altre iniziative imprenditoriali ma non è invece, soggetta al rispetto dei principi che sono posti alla base dell’attività professionale. L’ambito di operatività di tali organismi è dunque limitato e non suscettibile di equiparazione rispetto a quanto la Legge ha previsto per i professionisti (co. 1, art. 1, L. n. 12/1979) e per le associazioni di categoria (co. 4, art. 1, L. n. 12/1979).
Con la circolare n. 13469 del 23/10/2007 il Ministero, d’intesa con l’INPS e l’INAIL, affrontando la problematica del contrasto al fenomeno dell’abusivismo nelle attività dell’amministrazione del personale, ha individuato quali attività meramente esecutive potessero svolgere i CED ed escludendo decisamente ogni attività di tipo interpretativo e valutativo. Quella che si vuole mettere in luce è una tassativa ripartizione di competenze: al professionista spettano tutte le attività necessariamente prodromiche e valutative, implicanti specifiche cognizioni lavoristico-previdenziali, mentre ai CED spettano attività meramente esecutive, strumentali e di carattere accessorio. La differenziazione delle competenze è stata peraltro, più volte messa in luce anche dalla giurisprudenza: “commette il reato di cui all’art. 348 c.p. colui il quale non si limiti ad eseguire compiti di natura esecutiva, quali il mero calcolo o la semplice elaborazione di dati, ma svolga attività di più alto livello professionale, con ampia autonomia decisionale (ad esempio, gli adempimenti connessi all’assunzione ed al licenziamento dei lavoratori, l’assunzione di lavoratori con contratti di
formazione lavoro, la compilazione di modelli DM/10 per l’INPS” (Cass. penale, 11/07/2001 n. 27848).
La L. n. 12/79 al co. 5 dell’art. 1 espressamente prevede che “per lo svolgimento delle operazioni di calcolo e stampa relative agli adempimenti di cui al primo comma, nonché per l’esecuzione delle attività strumentali ed accessorie, le imprese di cui al quarto comma possono avvalersi anche di centri di elaborazione dati (che devono essere in ogni caso assistiti da uno o più soggetti iscritti agli albi di cui alla presente legge […], ovvero costituiti o promossi dalle rispettive associazioni di categoria alle condizioni definite al citato quarto comma”. Dall’esame della disposizione citata si evidenzia che anche i CED devono essere assistiti13 da uno o più soggetti iscritti agli albi di cui alla presente legge, a differenza dei CED costituiti o promossi dalle rispettive associazioni di categoria che devono essere assistiti da un Consulente del Lavoro.
Sulla presenza del professionista nei CED, giova riportare anche quanto il Ministero del Lavoro ha evidenziato nella circolare n. 1665 del 13/11/200314, secondo cui “il CED dovrà conferire al professionista l’incarico tramite una comunicazione scritta, avente data certa ed anteriore rispetto all’inizio dell’attività, che dovrà essere indirizzata all’ITL ed al CPO competente per territorio” (circolare Min. Lav. del 4/6/2007). Il professionista incaricato sarà ritenuto responsabile per l’attività eseguita dal CED, anche deontologicamente. Si vedano a tal proposito le “Norme di comportamento dei Consulenti del Lavoro nei confronti dei centri di elaborazione dati”, deliberate dal CNO il 17/06/2016 e riportanti anche il ruolo dei CPO nella vigilanza sui CED, ruolo attribuito dalla lettera b), dell’art. 14, L. n. 12/79.
4.2. Associazioni di categoria dei datori di lavoro
Le associazioni di categorie sono organismi costituiti precipuamente allo scopo di rappresentare e tutelare gli interessi delle categorie di appartenenza, produttive o professionali, e di fornire servizi collettivi alle imprese aderenti.
La L. 12/1979, all’art. 1, co. 415 , autorizza dette Associazioni allo svolgimento delle attività in materia di lavoro a determinate condizioni. La norma in commento effettua però, una importante precisazione, prevedendo che “tali servizi possono essere organizzati a mezzo dei Consulenti del Lavoro, anche se dipendenti dalle predette associazioni”. Viene, dunque, ribadita la centralità della figura del Consulente del Lavoro, posto che è consentito lo svolgimento di tali attività da parte delle rispettive associazioni di categoria che abbiano istituito al loro interno appositi servizi organizzati a mezzo dei soli professionisti iscritti all’Ordine dei Consulenti del Lavoro, anche se dipendenti delle associazioni stesse. Con riferimento alle attività di assistenza in materia di lavoro poste in essere dalle associazioni di categoria, la VI Sez. della Cass. Penale16 ha chiarito che “sussistono gli estremi del reato di esercizio abusivo di una professione laddove la gestione dei servizi e degli adempimenti in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale venga curata, non da dipendenti di un’associazione di categoria, cui l’art. 1, co. 4 della L. n. 12/1979 eccezionalmente riconosce la possibilità di quella gestione, ma da un soggetto privo del titolo di Consulente del Lavoro, ovvero non iscritto al relativo albo professionale, che sia socio di una società solo partecipata da una di quelle associazioni di categoria”.
La sentenza conferma quanto già in precedenza era contenuto, anche in diverse note di prassi, cioè che:
- le Associazioni, in materia di lavoro, devono operare con i propri dipendenti, quali unici soggetti possibili destinatari delle sub deleghe per gli adempimenti telematici17, al pari dei dipendenti dei professionisti;
- l’assistenza da parte del Consulente del Lavoro è obbligatoria. Nel merito si erano già espressi, il Min. Lav., inequivocabilmente, con la circolare n. 65 del 27/05/198618, l’INPS con circolare n. 100 del 27/04/1990 ed ancora il Ministero con il Vademecum del LUL del 06/12/2008;
- le Associazioni debbano essere dotate di reale rappresentatività, così come individuate dal’art. 32 del D.lgs. n. 241, del 09/07/2019, (risposta n. 37 del Vademecum del LUL)19.
Con il passare del tempo si assiste ad una progressiva strutturazione delle predette associazioni, con singole unità territoriali che hanno una propria autonomia giuridica ed operativa, sono dotate di propri organi decisionali e di rappresentanza ed adempiono alle attività di cui al co. 4, art. 1, della L. 12/79 tramite società di servizi. Queste ultime possono avere bacini di utenza nazionali o circoscritti alla singola unità territoriale dell’associazione di categoria cui fanno riferimento. Ma è di tutta evidenza che, anche per quanto chiarito nella succitata sentenza della Cass. Penale n. 9725/2013 che tali società debbano essere almeno controllate dalle Associazioni e non solo partecipate.
È, inoltre, necessario fornire una corretta interpretazione dei dati normativi vigenti, alla luce dei quali se è pur vero che le associazioni di cui al comma 4 dell’art. 1, della legge n. 12/1979 possono avvalersi di centri di elaborazione dati (o anche costituirli o promuoverli), questi ultimi possono svolgere solamente mere operazioni di calcolo e stampa e devono essere assistiti da un Consulente del Lavoro20. Sono da tempo in corso, confronti tra il CNO con l’INPS, per mettere ordine anche in questi settori di attività, nello specifico, per l’attribuzione delle corrette credenziali telematiche. Nel contempo, il CNO sta elaborando le norme di comportamento dei Consulenti del Lavoro all’interno delle associazioni.
4.3. Società tra professionisti
L’attività professionale può esercitarsi, oltre che in forma singola, anche in forma associata tramite la creazione di uno “studio associato” o di una società tra professionisti (di seguito, STP).
Dal 2011, viene emanata la seguente normativa:
• Art. 10 legge 183/2011 come modificato dalla Legge di conversione 27/2012 del D.L. 1/2012 (D.L. liberalizzazioni). (Tale normativa abolisce la Legge 1815/1939, che permetteva l’aggregazione tra professionisti solo con la formula dello studio associato);
• D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137 (la Riforma delle professioni);
• D.M. 8 febbraio 2013, n. 34, Ministero di Grazia e Giustizia, Regolamento in materia di società per l’esercizio di attività professionali regolamentate dal sistema ordinistico (G.U. n. 81 del 6.4.2013);
• D.M. 21 febbraio 2013, n. 46 (Decreto parametri).
Il Consulente del Lavoro rappresenta, nel nostro ordinamento, l’unico soggetto giuridico legittimato a svolgere in forma societaria l’attività professionale di consulenza del lavoro di cui all’art. 1 della legge 12/1979, attività che, si ricorda, è preclusa ai CED. Con l’insieme delle norme elencate, si è però innovato profondamente l’esercizio delle attività professionali consentendo ai professionisti, regolarmente iscritti agli Ordini, di esercitare la loro attività, oltre che in forma individuale e in forma associativa, anche secondo uno dei modelli societari previsti dai titoli V e VI del libro V del codice civile. Si precisa che la forma organizzativa dell’associazione professionale (studio associato) è fatta salva dal comma 9 dell’articolo 10 della Legge n. 183/2011 e, dunque, questa è espressamente consentita dalla Legge, nonostante l’abrogazione della citata Legge 1815/1939.
La Legge 183/2011 ha dato vita ad un sistema societario secondo cui il numero dei soci professionisti e la partecipazione al capitale sociale di questi ultimi deve essere tale da determinare la maggioranza di due terzi nelle deliberazioni o decisioni dei soci. La norma stabilisce, poi, che il venire meno di tale condizione costituisce causa di scioglimento della società e il Consiglio dell’Ordine o collegio professionale presso il quale è iscritta la società procede alla cancellazione della stessa dall’albo, salvo che la società non abbia provveduto a ristabilire la prevalenza dei soci professionisti nel termine perentorio di 6 mesi.
Appare opportuno precisare che, in ogni caso, il sistema delineato dall’art. 10 della Legge n. 183/2011 e dal successivo D.M. 34/2013
detta una disciplina organica delle STP, in particolare, con riguardo alle seguenti tematiche:
a) criteri e modalità affinché l’esecuzione dell’incarico professionale conferito alla società sia eseguito solo dai soci in possesso dei requisiti per l’esercizio della prestazione professionale richiesta;
b) designazione del socio professionista da parte dell’utente;
c) incompatibilità;
d) osservanza del Codice deontologico da parte dei professionisti e riferimento della società al regime disciplinare dell’Ordine al quale risulta iscritta.
L’INAIL, con la circolare n. 35 del 13 settembre 2017, ha abilitato le STP iscritte all’Albo dei Consulenti del Lavoro alla tenuta del Libro unico, prevedendo che possano ottenere il rilascio delle credenziali di accesso ai servizi telematici relativi alla gestione dei rapporti previdenziali ed assicurativi dei clienti che abbiano rilasciato delega in tal senso. In proposito, è bene precisare che la gestione delle deleghe dovrà essere riferita alla STP e non al singolo socio professionista21.
4.3.1. Regime disciplinare nella STP (art. 12 D.M. 8 febbraio 2013)
Ferma la responsabilità disciplinare del socio professionista, che è soggetto alle regole deontologiche dell'Ordine o collegio al quale è iscritto, la società professionale risponde disciplinarmente delle violazioni delle norme deontologiche dell'Ordine al quale risulti iscritta. Se la violazione deontologica commessa dal socio professionista, anche iscritto ad un Ordine o collegio diverso da quello della società, è ricollegabile a direttive impartite dalla società, la responsabilità disciplinare del socio concorre con quella della società. Il legislatore ribadisce, dunque, anche nel contesto della STP, l’importanza della regola deontologica esistente per le varie professioni, al punto tale che le sanzioni debbano essere indirizzate sia ai soci sia alle stesse società. Si nota, quindi, un superamento del principio di personalità, individuandosi la persona giuridica come destinataria di una precisa responsabilità disciplinare ulteriore. Da quanto sopra si evince che la società potrà essere soggetto passivo di un procedimento disciplinare per le violazioni di norme deontologiche e potrà essere sospesa o radiata dall’albo o semplicemente censurata.
Tuttavia, esistono doveri deontologici che riguardano unicamente i singoli professionisti, come ad esempio quello inerente alla formazione. Ebbene, sembra arduo che la società possa essere accusata per la violazione di tale
dovere deontologico di formazione. Lo stesso potrebbe valere per tutti quegli obblighi di correttezza e buona fede, che sono immediatamente riferibili ad una persona fisica. Tuttavia, proprio in virtù della nuova disposizione di Legge, che individua nella S.T.P. un soggetto passivo nell’ambito del procedimento disciplinare, la società potrà essere chiamata a rispondere disciplinarmente in persona del suo rappresentante legale anche in via diretta. Accanto a tale responsabilità diretta potrà sussistere una responsabilità indiretta, individuandosi un preciso dovere di controllo da parte della società medesima sull’operato dei singoli soci professionisti. Può, inoltre, individuarsi una responsabilità diretta della STP, sempre in persona del legale rappresentante pro tempore, in riferimento a quelle ipotesi di “mala gestio” della STP medesima.
Va sottolineato che la responsabilità disciplinare della società deve sempre essere distinta da quella dei soci. Ne deriva che:
• se la società subisce un provvedimento di sospensione o radiazione, la società non potrà svolgere attività lavorativa, mentre i soci, se estranei alla commissione dell’illecito, non verranno colpiti da analogo provvedimento e, pertanto, potranno svolgere il proprio lavoro a titolo individuale;
• se le irregolarità disciplinari vengono compiute individualmente dal socio, restandone la società estranea (in quanto non tenuta nel caso specifico ad alcun dovere di controllo), quest’ultima non potrà essere oggetto di provvedimento disciplinare; da ciò si evince che non può ipotizzarsi una responsabilità oggettiva in capo alla STP. Certo l’indagine circa l’eventuale coinvolgimento della società rispetto ad un comportamento illecito di un socio non si pone in un contesto semplice, ma richiede una percorso di attenta valutazione degli elementi probatori ed indiziari presenti.
La responsabilità disciplinare ha sempre una sua natura personale, mentre in riferimento alla società ha sempre una connotazione concorrente. In buona sostanza, il comportamento illecito del professionista socio di STP ha come conseguenza una responsabilità della società, allorquando tale professionista abbia agito per conto della società medesima, seguendo direttive attribuibili a quest’ultima.
Come sopra già sottolineato, la irregolare gestione di una STP ha come conseguenza diretta una duplice responsabilità disciplinare: sia quella dell’amministratore (se professionista) che ha commesso la irregolarità, sia quella della società, inevitabilmente coinvolta in via automatica, stante la sussistenza del rapporto organico. Nelle STP multidisciplinari, nessun problema si pone quando l’Ordine di iscrizione del socio imputato è lo stesso dell’Ordine presso il quale è iscritta la società, in quanto si applicano le medesime regole deontologiche. Diversamente, si pongono problemi nell’ipotesi di una società multidisciplinare, laddove i soci esercitino professioni diverse da quella propria dell’Ordine in cui è iscritta la società. Infatti, in tale ipotesi i codici deontologici risulteranno diversi e differenti saranno i consigli di disciplina, anche se il fatto costitutivo dell’illecito disciplinare (ad esempio, le indicazioni della direzione aziendale) risulti essere unico. Emergono, quindi, problemi di uniformità delle decisione dei singoli Consigli di disciplina. Problemi attuativi, non risolti dalla norma, si rilevano anche quando un illecito disciplinare venga realizzato nell’ambito di una STP non multidisciplinare da più soci soggetti alla potestà disciplinare di diversi Ordini competenti per territorio. In tale eventualità, al fine di dare uniformità decisionale, sarebbe opportuno prevedere canali di collegamento tra i singoli collegi di disciplina, probabilmente anche attraverso la previsione di norme regolamentari, che possano realizzare una riunione dei procedimenti.